Una ricerca condotta dall’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati (Ismn) del Cnr di Roma, in collaborazione con l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e con l’Agenzia Regionale Prevenzione e Ambiente (Arpa) di Reggio Emilia, ha dimostrato che CO e CO2 si possono generare anche dall’attrito, dovuto a sismi, tra rocce sedimentarie.
I gas serra possono essere prodotti anche dall’attrito tra rocce sedimentarie che si verifica durante gli eventi sismici. Lo hanno rilevato alcuni ricercatori dell’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati (Ismn) del Cnr di Roma, in collaborazione con l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e con l’Azienda regionale prevenzione e ambiente (Arpa) di Reggio Emilia. La ricerca, pubblicata su riviste internazionali di geofisica, ha infatti dimostrato che le rocce carbonatiche e argillose messe in condizioni di attrito, come nel caso di forti stress sismici, possono generare una notevole quantità di gas serra, quali anidride carbonica (CO2), ossido di carbonio (CO) e metano (CH4), oltre che idrogeno (H2) e tracce di idrocarburi più complessi che vengono dispersi in atmosfera o intrappolati nel sottosuolo.
La scoperta ribalta la tesi secondo la quale l’attività antropica è l’unica responsabile delle variazioni climatiche recenti.
Il dato è emerso durante uno studio del Ismn–Cnr per la messa a punto di nuovi processi per la produzione di materiali leganti innovativi, rispetto a quelli tradizionali, partendo da argille e calcari. In questa ricerca sono stati utilizzati particolari mulini ad alta energia di attrito, capaci di produrre un’azione ‘meccanochimica’, a velocità di scorrimento e con pressioni analoghe a quelle che si riscontrano durante un fenomeno sismico.
“Le rocce sedimentarie, in seguito all’attrito” spiega Paolo Plescia dell’Ismn-Cnr “tendono a frantumarsi fino a raggiungere dimensioni nanometriche per poi dissociarsi (calcinazione) producendo CO e CO2, ossia gas serra, e idrogeno, a temperature di appena un centinaio di gradi centigradi. A temperatura bassa, insomma,, se si considera che normalmente il carbonato di calcio perde anidride carbonica per calcinazione a circa 800°C”.
Nel mulino, durante la ‘macinazione’ per attrito, parte dei gas prodotti tendono a ricombinarsi formando metano e altri idrocarburi. Tale processo si verifica perché i materiali vengono portati ad uno stato pressoché vetroso e diventano estremamente reattivi, in grado di catalizzare reazioni chimiche, quali la combinazione tra CO2 e idrogeno per formare metano.
“Più in generale” continua Plescia “i gas sprigionati dalle ‘particelle’ di roccia non derivano dalla liberazione di fluidi in esse intrappolati, ma da vere reazioni di dissociazione e ricombinazione, come nel caso di reazioni di metanazione che si realizzano industrialmente in reattori chiusi in presenza di catalizzatori e a pressioni e temperature elevate. Questa ricerca, rivolta finora verso le applicazioni industriali ha un’importante ritorno nelle complesse valutazioni delle emissioni di gas serra in atmosfera e nella comprensione della ‘chimica’ della generazione degli idrocarburi gassosi di origine non biologica. In particolare, si stanno verificando le analogie tra gli effetti riscontrati in laboratorio e gli ambienti di faglia naturali, analogie che potrebbero determinare una rivalutazione del ruolo delle sorgenti naturali nelle emissioni di gas serra, quest’ultime attribuite finora sopratutto a vulcani, fonti termali e biologiche”.