Rolling Stones, Keith Richards – Life

Con i Rolling Stones, Keith Richards ha creato canzoni che hanno scosso il mondo intero, vivendo in puro stile rock’n’roll. Ora, finalmente, è lui stesso a raccontare la storia di una vita scampata a un uragano di fuochi incrociati. L’ascolto ossessivo dei dischi di Chuck Berry e Muddy Waters, lo studio della chitarra e la nascita della band, fondata insieme a Mick Jagger e Brian Jones. L’iniziale successo dei Rolling Stones e i famigerati arresti per possesso di stupefacenti, che ne hanno consacrato l’immagine duratura di eroe popolare e fuorilegge. L’invenzione di riff immortali come quelli di Jumpin’ Jack Flash e Honky Tonk Women. L’amore per Anita Pallenberg e la morte di Brian Jones. L’espatrio in Francia per motivi fiscali, i tour incendiari negli Stati Uniti, l’isolamento e la tossicodipendenza. Il nuovo amore per Patti Hansen. L’amaro allontanamento da Jagger e la successiva riconciliazione. Il matrimonio, la famiglia, gli album solisti e gli X-Pensive Winos, e la strada che non finisce mai. Con la disarmante onestà che è il suo marchio di fabbrica, Keith Richards ci consegna la storia di una vita che tutti avremmo voluto conoscere meglio, sfrenata, impavida e autentica.

da Capitolo primo (estratto)
Nel quale gli agenti di polizia mi fanno accostare lungo una strada dell’Arkansas durante il tour del 1975 negli Stati Uniti, e s’arriva a un punto morto.

Perché ci fermammo a pranzo al ristorante 4-Dice di Fordyce, in Arkansas, nel fine settimana del Giorno dell’indipendenza? Perché ci fermammo, e basta? Come se non avessi imparato nulla dopo dieci anni passati a scorrazzare in auto per la Bible Belt. A Fordyce, un paesino minuscolo, con i Rolling Stones in cima alla lista nera della polizia da un capo all’altro degli States. Tutti gli sbirri volevano arrestarci, con qualunque mezzo, così da ottenere una promozione e ripulire patriotticamente l’America dai frocetti inglesi. Era il 1975, un’epoca di scontri e barbarie. La stagione di caccia agli Stones era stata aperta ai tempi del nostro ultimo tour, il tour del ’72, noto come STP, o Stones Touring Party. Il Dipartimento di stato aveva riscontrato disordini (vero), disobbedienza civile (vero anche questo), sesso illecito (qualunque cosa fosse), e sommosse in tutto il paese. La colpa era nostra, poveri menestrelli. Avevamo incitato i giovani a ribellarsi, avevamo corrotto l’America, e le autorità avevano deciso che non avremmo più messo piede negli Stati Uniti. La faccenda era diventata, nell’era Nixon, di scottante attualità politica.

Nixon in persona stava preparando un bello scherzetto a Lennon – che riteneva capace di fargli perdere le elezioni – sguinzagliandoli dietro i suoi scagnozzi. Noi, a nostra volta, come fu notificato ufficialmente al nostro avvocato, eravamo considerati la rock band più pericolosa del mondo. In passato, il nostro grande avvocato, Bill Carter, era riuscito a tirarci fuori da solo da veri e propri scontri pianificati e ideati dalle forze di polizia di Memphis e San Antonio. E ora Fordyce, una cittadina di 4237 anime la cui scuola vantava uno stemma raffigurante uno strano insetto rosso, rischiava di incassare il premio. Carter ci aveva consigliato di girare alla larga dall’Arkansas, e non deviare mai dall’Interstatale. Ci aveva informato che l’Arkansas aveva recentemente tentato di bandire il rock’n’roll per legge. (Mi sarebbe piaciuto leggere la formulazione dell’articolo: “Laddove vi fossero quattro battute per ogni misura, ripetute con insistenza e ad alto volume…”). Ed eccoci là, a zonzo per le strade secondarie dell’Arkansas, a bordo di una Chevrolet Impala gialla, nuova di zecca. In tutti gli Stati Uniti, non c’era forse luogo più assurdo dove sostare con un’auto stracolma di droga – una comunità rurale chiusa e conservatrice, poco incline ad accogliere forestieri dall’aspetto insolito.

In auto con me c’erano: Ronnie Wood; Freddie Sessler, un personaggio incredibile, un amico e quasi un padre per me, il quale avrà molti ruoli in questa storia; e Jim Callaghan, per molti anni capo del nostro servizio di sicurezza. Stavamo percorrendo i seicentoquaranta chilometri da Memphis a Dallas, dove il giorno dopo avremmo tenuto un concerto al Cotton Bowl. Jim Dickinson, il ragazzo del Sud che aveva suonato il piano in Wild Horses, ci aveva assicurato che il paesaggio offerto da Texas e Arkansas valeva il viaggio in automobile. E poi non ne potevamo più degli aerei. Il volo da Washington a Memphis era stato spaventoso, con improvvisi vuoti d’aria di parecchie centinaia di metri, gente che strillava e singhiozzava; la fotografa Annie Liebovitz aveva sbattuto la testa contro il soffitto, e dopo l’atterraggio i passeggeri avevano baciato l’asfalto della pista. Mentre ondeggiavamo per i cieli, qualcuno mi aveva visto raggiungere la coda dell’aereo per consumare sostanze con maggiore dedizione del solito, deciso a non sprecare nulla. Un volo pazzesco, sul vecchio aereo di Bobby Sherman, lo Starship.

Così eravamo andati in auto, e io e Ronnie avevamo fatto i cretini. Ci eravamo fermati a una tavola calda chiamata 4-Dice, e dopo aver ordinato eravamo andati in bagno. Sapete, tanto per tirarci su. Ci eravamo sballati. La clientela del posto non ci andava a genio, e neppure il cibo, così eravamo rimasti in bagno a sghignazzare e a fare gli scemi. Per quaranta minuti. Cose che non si fanno, da quelle parti. Non allora. Fu così che la situazione precipitò, e il personale chiamò la polizia. Quando uscimmo, un’automobile nera senza numero di targa era posteggiata sul ciglio della strada, e non appena ci rimettemmo in marcia, percorsi sì e no venti metri, partirono le sirene e quella lucina lampeggiante, e gli sbirri ci puntarono i fucili in faccia.

Io portavo un berretto di jeans ricoperto di tasche piene di roba. Ma la roba era ovunque. Perfino negli sportelli dell’auto: bastava far saltare i pannelli di rivestimento ed ecco sacchetti di plastica zeppi di cocaina e marijuana, peyote e mescalina. Oh mio Dio, e adesso come ne veniamo fuori? Era il momento peggiore per finire dietro le sbarre. Il fatto stesso che per il tour ci avessero consentito l’accesso negli Stati Uniti era un miracolo. Come sapevano bene le forze di polizia delle grandi città, i nostri visti erano soggetti a una serie di condizioni, e Bill Carter se li era guadagnati grazie a un enorme lavoro di mediazione, svolto nei due anni precedenti, con il Dipartimento di stato e il Servizio immigrazione. Ovviamente, la condizione numero uno era che non fossimo arrestati per possesso di stupefacenti, e Carter si era fatto garante per noi.

All’epoca non mi facevo di robaccia pesante; mi ero dato una ripulita per il tour. Avrei potuto caricare tutto sull’aereo. Ancora oggi non capisco perché mi presi il disturbo di portarmi dietro quelle schifezze, e correre un rischio simile. La roba me l’aveva data qualcuno a Memphis e non mi andava di sbarazzarmene, ma avrei potuto comunque caricarla sull’aereo e viaggiare pulito. Perché, invece, imbottii la macchina come un aspirante spacciatore? Forse mi ero svegliato tardi, e l’aereo era già partito. Ricordo di aver impiegato parecchio tempo a rimuovere i pannelli per nascondere tutta quella merda. Inoltre, il peyote non è nemmeno il mio genere di sostanza. Nelle tasche del berretto c’era dell’hashish, qualche pastiglia di Tuinal, un po’ di coca. Accolsi gli sbirri con uno svolazzo del berretto, gettando hashish e pastiglie tra i cespugli. “Salve, agente,” (svolazzo), “ah, ho infranto qualche legge del posto? La prego di perdonarmi. Sono inglese. Guidavo sul lato sbagliato della strada?” Li avevo messi sulla difensiva. E mi ero liberato della roba. Non tutta, però. Avevano visto il coltello da caccia sul sedile dell’auto e più tardi lo avrebbero sequestrato come “arma nascosta”, quei bastardi contaballe. Ci dissero di seguirli fino a un parcheggio sotterraneo nei pressi del municipio. Senza dubbio, lungo il tragitto, ci videro gettare altra merda dal finestrino.

Giunti al garage, non ispezionarono subito l’auto. Dissero a Ronnie: “Va bene, salta su e prendi le tue cose”. Ronnie aveva lasciato dentro un borsello o qualcosa del genere, ma una volta all’interno stipò tutta la roba di sua pertinenza dentro un pacchetto di Kleenex. Quando uscì, mi disse: “È sotto il sedile del guidatore”. Poi fu il mio turno e, dal momento che non avevo effetti personali nell’auto, non dovetti far altro che fingere di cercare qualcosa e sistemare il pacchetto di Kleenex. Peccato che non sapessi che cazzo farmene, così mi limitai ad appallottolarlo e nasconderlo sotto il sedile posteriore. Poi uscii e dissi che, be’, non avevo niente. Il fatto che non abbiano rivoltato l’auto come un calzino sfugge ancora alla mia comprensione. […]

Keith Richards
Cura: James Fox
Traduzione: Martino Gozzi; Andrea Marti; Marina Petrillo
Collana: Varia – Feltrinelli Editore