La regina e il triumviro ebbero tre figli, due gemelli e un maschio. Sinora si conservava solo l’immagine di Selene, la femmina. Un’egittologa dell’Istituto di studi sulle civiltà italiche e del Mediterraneo antico del Cnr ha ora identificato i due gemelli in un gruppo scultoreo conservato al Museo del Cairo.
I due gemelli Alessandro Helios e Cleopatra Selene, figli del triumviro della Repubblica romana Marco Antonio e della regina Cleopatra VII, fanno la loro comparsa nel palcoscenico dell’arte antica, identificati in un gruppo scultoreo conservato al museo del Cairo da Giuseppina Capriotti, egittologa dell’Istituto di studi sulle civiltà italiche e del Mediterraneo antico del Consiglio nazionale delle ricerche (Iscima-Cnr).
“Antonio e Cleopatra ebbero due gemelli e un maschio, chiamato Tolomeo Filadelfo. Dei tre figli, la sola immagine finora nota era quella di Selene, sposa di re Giuba II, rappresentata sul verso di una moneta e in una scultura”, spiega la ricercatrice. “I maschi, dopo il suicidio dei loro genitori, ebbero presumibilmente un triste destino, al pari di Cesarione, l’altro figlio che Cleopatra aveva avuto da Giulio Cesare. Ottaviano Augusto, dopo la conquista dell’Egitto, li fece sfilare durante il trionfo per poi affidarli alla sorella Ottavia minore con apparente magnanimità. Successivamente, dei figli di Antonio e Cleopatra si perdono le tracce dal punto di vista storico e anche artistico”. Le efferate abitudini della famiglia giulio-claudia nei confronti dei dinasti potenzialmente pericolosi non lasciano molti dubbi sulla loro fine e l’oscuramento iconografico è probabilmente dovuto a questo.
A fare luce arriva ora l’analisi di un reperto rinvenuto in un tempio dedicato ad Hathor, nella città di Dendera in Alto Egitto, e conservato al museo del Cairo. La scultura, alta circa un metro, mostra un bambino e una bambina che si abbracciano, affiancati da due serpenti. “Il capo dei bambini è sormontato da due dischi con inciso l’occhio-udjat, identificabili con sole e luna. Il maschio ha dei riccioli corti e una treccia laterale, tipica dei bambini egiziani, la femmina porta un’acconciatura a grandi ciocche raccolte, molto simile a quella di alcune regine tolemaiche, in particolare di Cleopatra”, continua Capriotti. “Lo stile delle figure, in particolare quello delle teste, richiama i modi della cosiddetta scultura greco-egizia. L’opera, che è esemplare nel mostrare l’innovativo dialogo tra cultura egizia ed ellenistica, è stilisticamente affine a un’altra statua rinvenuta a Dendera rappresentante Pakhom, personaggio di alto rango, datata tra il 50 e il 30 a. C”. Il legame tra la scultura e la dinastia macedone dei Tolemei che governarono l’Egitto dopo la morte di Alessandro Magno (323 a.C.), e in particolare con Cleopatra che ne fu l’ultima rappresentante, è pertanto evidente. “Considerato inoltre che la regina ebbe un ruolo importante nella decorazione del tempio di Dendera, dove compare in un rilievo monumentale, in abiti faraonici, insieme col figlio Cesarione”, prosegue la ricercatrice. Ma come si arriva alla convinzione che la scultura rappresenti i due gemelli?
“Nel mito egizio compaiono i gemelli Shu e Tefnet, figli del dio Atum e conosciuti come i suoi ‘occhi’, cioè il sole e la luna. L’abbraccio dei due bambini potrebbe quindi alludere alle notti di plenilunio, quando secondo il mito i due corpi celesti si univano, ma anche con un’eclisse di sole che sarebbe avvenuta durante il riconoscimento dei gemelli di Cleopatra da parte di Marco Antonio”, continua Capriotti. “Fu per questo che i bambini presero i nomi aggiuntivi di Helios e Selene, a indicarne il legame celeste e mitizzarne la nascita gemellare”.
Il gruppo è perciò identificabile come la prima raffigurazione nota di Alessandro e Cleopatra, secondo una notevole elaborazione. “Se nel mito egizio la luna è una divinità maschile, nella scultura i generi sono invertiti secondo la tradizione greca”, conclude Capriotti. “Cleopatra VII, pur proiettata verso il Mediterraneo, guardava con interesse alla tradizione egizia e la reinterpretazione dell’opera attesta questa sintesi tra le due grandi tradizioni”.