Nel 943 nella città di Limoges in Francia morirono, secondo le cronache di Hugo Farsitus, circa 40.000 persone: ‘Uomini cadevano sulla strada urlando e contorcendosi, altri ancora davano segni di pazzia… sembravano divorati da un fuoco invisibile’. Il racconto non è esagerato e descrive i sintomi dell’ergotismo, una forma di intossicazione generata dall’ingestione di farine ottenute da cereali contaminati dalla ‘segale cornuta’, una malattia provocata da un fungo ascomicete.
Ancora oggi si può morire banalmente per ingestione di alimenti non idonei, consumati nell’ignoranza delle indispensabili norme sull’igiene e la sicurezza alimentare. Nonostante i più frequenti problemi di tossicosi alimentare siano oggi associati alle contaminazioni da microorganismi, ci sono ancora alimenti che diventano tossici nel tempo. Come riconoscerli? In alcuni casi, da segnali elementari ed evidenti. “Le patate”, spiega Antonio Malorni, direttore dell’Istituto di scienza dell’alimentazione (Isa) del Cnr di Avellino, “contengono i glicoalcaloidi solanina e chaconina, inibitori della colinesterasi e teratogeni (in grado cioè di indurre malformazioni qualora una donna venga esposta a esse durante la gravidanza o prima), presenti mediamente in una proporzione di cinque milligrammi per cento grammi (ossia lo 0,005%), anche se la concentrazione cambia nei diversi cultivar del tubero (fino a 20 mg/100g siamo nella concentrazione di non tossicità). Le maggiori concentrazioni di solanina si trovano nella buccia delle patate inverdite per esposizione alla luce, nei germogli e zona circostante, negli steli e ‘genericamente’ nelle patate infestate o ammaccate, mal conservate, immature. In questi casi, i glicoalcaloidi possono raggiungere livelli letali per l’uomo. Fortunatamente i nostri sensi ci avvisano: al di sopra dei 14 mg/100g le patate assumono un sapore amarognolo e intorno a 20 mg/100g, limite di concentrazione oltre il quale diventano pericolose, generano una sensazione di bruciore nella bocca e nella gola”.
Anche sul basilico occorre fare alcune precisazioni. “Le foglie giovani”, prosegue Malorni, “contengono molto più metileugenolo, un agente cancerogeno contenuto anche in altri aromatizzanti come lo zenzero, rispetto a quelle già sviluppate, in cui questa sostanza si trasforma nell’innocuo eugenolo. Quindi, per precauzione, è preferibile non ultilizzare foglie giovani in cucina”. Regola nota in genere a chi cucina, talvolta viene però disattesa. Per il prezzemolo, invece, c’è da sottolineare che contiene l’apiolo, che ha un effetto antibiotico (che interferisce con l’equilibrio della normale flora intestinale), e ossitocico, aumentando la contrattilità dell’utero ipotonico. “Per questo”, prosegue Malorni, “il prezzemolo in grandi quantità, di almeno centinaia di grammi, un tempo veniva utilizzato come abortivo. In cucina, quindi, è opportuno aggiungerlo all’ultimo momento per goderne dei benefici e dell’aroma senza esaltarne la tossicità”.
“Ma quanto precisato per patate, basilico e prezzemolo” conclude Gian Luigi Russo dell’Isa-Cnr, “non deve generare falsi allarmismi. Senza volere necessariamente scomodare il concetto di ‘ormesi’, secondo cui una stessa molecola può avere effetti opposti – tossicità o protezione – in relazione alla concentrazione impiegata, vale la pena ricordare che benefici o rischi nell’assunzione di molecole presenti nella dieta dipendono dalle loro concentrazioni, dalla biodisponibilità (quanto ne viene assorbito e distribuito ai tessuti periferici), dalla stabilità ai trattamenti termici, dalla capacità di interagire con altre molecole presenti negli alimenti. Mi sentirei di dire che, in una dieta corretta e bilanciata, la complessità dei sistemi di difesa fisiologici dell’organismo sono perfettamente in grado di controllare gli effetti potenzialmente nocivi degli xenobiotici (sostanze chimiche estranee al sistema biologico)”.
(Fonte: Almanacco della Scienza)