La mafia prima e dopo Provenzano
Pietro Grasso
Francesco La Licata
Contributi: Emanuele Macaluso
Collana: Serie Bianca – Feltrinelli
Pagine: 176 Prezzo: Euro 13
Chi è veramente Bernardo Provenzano? Come è stato preso? Il Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, affida a Francesco La Licata una lunga riflessione in cui gli interrogativi sul boss corleonese sono il punto di partenza che ci conduce lungo l’impervio sentiero dei vizi e virtù della lotta alla mafia e del difficile confronto con una politica debilitata dal virus mafioso.
Il libro
Bernardo Provenzano rappresenta l’ultimo padrino del Novecento. La sua cattura, dunque, si presta a una radiografia conclusiva di ciò che è stata la mafia in Italia e in Sicilia negli ultimi cinquant’anni. La caccia al padrino di Corleone, raccontata in presa diretta da Pietro Grasso, può fungere (oltre che da emozionante cronaca di una storica operazione di contrasto a Cosa nostra) da “pretesto” per riaggiornare le famose “lezioni di mafia” a suo tempo scritte da Giovanni Falcone. L’intervista a Grasso affronta i temi più “curiosi” che appassionano l’opinione pubblica: lo stile di vita di un boss che tutti immaginano come un Re Mida e invece vive in una masseria e si nutre di miele e cicoria; la capacità di “governare” una regione intera (e forse di più) da un buco medievale del corleonese servendosi di un ancestrale sistema di comunicazione, quello dei “pizzini” scritti a fatica da un uomo che “ha la seconda elementare non finita”.
Il “sistema Provenzano” era una rete non soltanto criminale ma perfettamente inserita in quella “borghesia mafiosa” che offre personale alle professioni, all’imprenditoria, alla politica. Interessante il quadro che le indagini offrono sulle scelte operate dal boss per inaugurare la stagione della “mafia invisibile”, dopo la sconfitta della strategia stragista di Riina e della cupola corleonese. I “pizzini” di Provenzano offrono uno spaccato antropologico interessantissimo del “provenzanismo”: il rapporto con Cosa nostra, con gli altri capi, con il mondo esterno, con la famiglia di sangue e con la famiglia mafiosa, con la moglie e i figli. Il rapporto con la politica e con il mondo degli imprenditori: il pizzo, il “governo” degli affari, gli appalti. E, infine, come contraltare alla mafia, uno sguardo allo schieramento opposto: Palermo e il suo ventre molle, l’appello inascoltato di Grasso a non candidare inquisiti o sospettati, il palazzo di giustizia, il passato e il presente, gli errori dell’Antimafia, le disattenzioni dei governi e della politica.
Prefazione di Emanuele Macaluso
(estratto)
Giovanni Falcone nella conversazione con Marcelle Padovani raccolta nel libro Cose di Cosa nostra, analizzando il fenomeno mafioso, usò parole pesanti per coloro che non conoscendo cosa fosse veramente Cosa nostra la classificarono come una struttura di servizio del cosiddetto “terzo livello”. Ecco il testo in cui riassume il suo pensiero: “I crimini eccellenti, su cui finora non si è riusciti a fare luce, hanno alimentato l’idea del ‘terzo livello’, intendendo con ciò che al di sopra di Cosa nostra esisterebbe una rete, ove si anniderebbero i veri responsabili degli omicidi, una sorta di supercomitato, costituito da uomini politici, da massoni, da banchieri, da alti burocrati dello stato, da capitani di industria, che impartiscono ordini alla cupola”.
E aggiunge: “Questa suggestiva ipotesi che vede una struttura come Cosa nostra agli ordini di un centro direzionale sottratto al suo controllo è del tutto irreale e rivela una profonda ignoranza dei rapporti tra mafia e politica”. In verità, ad alimentare questa visione delle “cose di Cosa nostra” non sono stati solo noti “mafiologhi” ma anche i comportamenti di alcuni magistrati che compiacenti mezzi di comunicazione hanno indicato come intransigenti persecutori del “terzo livello”.
Lo stesso Falcone avverte come “attraverso un percorso misterioso, non so per quale rozzezza intellettuale, il nostro ‘terzo livello’ è diventato il ‘grande vecchio’, il ‘burattinaio’ che dall’alto della sfera politica, tira i fili della mafia”. Del resto, Giulio Andreotti che, a mio avviso, ha pesanti responsabilità politiche per le forme che in un periodo della storia siciliana assunse il rapporto tra mafia e politica, è stato spesso indicato, anche attraverso un processo penale, come il grande burattinaio. Le cose invece sono molto più semplici e più complesse al tempo stesso.
Le parole di Falcone a Marcelle Padovani sono del 1991. Quelle parole servirono a far capire cos’era stata e cos’era Cosa nostra, quali mutazioni erano intervenute soprattutto dopo l’opera della magistratura palermitana che aveva avuto come sbocco il maxiprocesso, istruito dallo stesso Falcone, che vide come protagonisti i boss più “autorevoli” e un gruppetto di mafiosi pentiti, tra cui Buscetta, il quale aveva descritto le strutture, i poteri e i delitti di Cosa nostra. Sono oggi trascorsi sedici anni da quando Falcone rilasciò quell’intervista a Marcelle Padovani. Anni carichi di avvenimenti di cui lo stesso Falcone fu protagonista sino al giorno della strage di Capaci e di via D’Amelio, che segnarono certamente una svolta non solo nella storia di Cosa nostra, ma nel rapporto tra mafia e politica, tra mafia e stato.
Ho fatto questa premessa per dire che in questo libro del procuratore Pietro Grasso e del giornalista Francesco La Licata si trovano analisi ricche e puntuali su Cosa nostra, che ricostruiscono il filo a partire dagli anni esaminati da Falcone fino a ciò che si è verificato dopo il suo assassinio: dalla cattura di Riina a quella di Provenzano. E a compiere questa analisi è il magistrato che ha lavorato con Falcone, il giudice che ha scritto la sentenza del maxiprocesso, che ha speso tanti anni in luoghi chiave di osservazione e di elaborazione della politica antimafiosa… (…)