A chi non è capitato di entrare in una stanza e, una volta dentro, di dimenticarne il motivo? È il “doorway effect”. Il processo per cui in alcuni casi possiamo dimenticare perché siamo entrati in una stanza è definito “doorway effect” (effetto di attraversamento della porta). I ricercatori hanno documentato questo fenomeno intrigante definito anche come “effetto di aggiornamento della posizione”. È interessante che lo stesso effetto sia dimostrato persino in soggetti che immaginino solo di attraversare una porta.
Ma perché avviene? Sebbene la nostra esperienza del mondo sia percepita come continua, il cervello al fine di gestire il flusso ininterrotto di informazioni, la segmenta in eventi, immagazzinati nella memoria episodica. Gli eventi sono determinati da confini, che segnano l’inizio e la fine di un particolare periodo di tempo. I cambiamenti ambientali, come ad esempio entrare in un’altra stanza oppure cambiare compito a fine e/o inizio della giornata lavorativa dettano tali confini. La porta rappresenta dunque il limite di un evento, per quanto comune. Diverse ricerche dimostrano che la memoria per l’ordine temporale degli elementi è migliore per quelli presentati all’interno della stessa stanza o contesto piuttosto che per elementi presentati in stanze o contesti diversi. Analogamente, è stato dimostrato che durante la lettura, la memoria per le parole precedenti la frase “un’ora dopo” è peggiore di quella che precede la frase “un po’ di tempo dopo”, in quanto la prima è più simile a un evento. Ecco perché attraversare le porte, nella realtà, nella realtà virtuale e nella nostra immaginazione, ci fa dimenticare più facilmente le informazioni ottenute nella stanza precedente.
Quando ci avviamo verso un’altra stanza con un obiettivo in mente, il nostro cervello deve attivare un sistema di memoria, definito “memoria di lavoro” che serve a mantenere un certo numero di informazioni per il tempo necessario affinché vengano elaborate, per poi o essere dimenticate o trasferite nel magazzino della memoria a lungo termine. Ad esempio, quando compiamo un calcolo a mente, utilizziamo la memoria di lavoro per i calcoli parziali che verranno cancellati subito dopo, mentre il risultato finale verrà probabilmente mandato in memoria a lungo termine. La memoria di lavoro ha una capacità limitata, di circa 7+/-2 elementi, ed è molto sensibile alle interferenze o alla distrazione, perché richiede che la nostra attenzione sia rivolta al compito. Il nostro sistema attentivo opera in modo volontario, come quando ci impegniamo in un compito, oppure riflesso, come quando viene catturato da stimoli improvvisi oppure inattesi. L’alternanza tra questi due processi ci consente di mantenere l’attenzione volontaria focalizzata su compiti complessi e duraturi, ad esempio lavorare al computer, senza isolarci dal mondo, ovvero rispondere a eventi inattesi o cambiamenti nel contesto che potrebbero richiedere un nostro intervento, come un collega che ci offre il caffè.
In condizioni normali, questi passaggi avvengono senza grossi “danni” sulla nostra capacità di ricordare il compito in corso. Nel cervello sono state scoperte delle cellule, chiamate “grid cells”, che formano una rappresentazione a griglia dell’ambiente. Uno studio recente ha dimostrato che in presenza di due stanze identiche divise da una porta, all’inizio, quando l’ambiente è completamente nuovo, le “grid cells” formano due mappe separate per ognuna delle stanze, ma quando queste diventano familiari, le cellule inglobano i due ambienti in una unica mappa, come se la porta non vi fosse. Questo potrebbe essere uno dei meccanismi che protegge la nostra memoria dal fenomeno del “doorway effect”.
Tuttavia, quando la nostra memoria di lavoro è sovraccaricata da pensieri, preoccupazioni, dal multitasking (es. un messaggio sul cellulare), oppure l’ambiente in cui entriamo è molto diverso da quello da cui proveniamo, la memoria di lavoro viene automaticamente aggiornata “attraversando la porta”, in modo tale che l’evento precedente possa essere spazzato via dal successivo, e con esso le ragioni del nostro spostamento.
Fonte: Almanacco della Scienza – Elvira De Leonibus, Istituto di biochimica e biologia cellulare