Questo l’interrogativo posto da “Finis vitae”, testo promosso e pubblicato dal CNR in cui alcuni dei maggiori esperti internazionali affrontano la definizione di ‘morte’ e i criteri per accertarla, su cui anche l’esperienza clinica pone seri dubbi.
Il tema della ‘dolce morte’ divide studiosi, mass media e opinione pubblica. Invece, sulla definizione di ‘morte’ e sui criteri per accertarla, il dibattito scientifico e culturale si è affievolito. I principali interrogativi su tale problematica sono ora affrontati in ‘Finis vitae. Is Brain Death still Life?’, un testo pubblicato con il sostegno del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che raccoglie gli interventi di autorevoli medici, giuristi e filosofi, europei e americani. Il libro, edito da CNR e Rubbettino, viene presentato oggi presso la sede dell’Ente, con gli interventi di: Rosangela Barcaro (bioeticista – CNR), Rainer Beckmann (giurista – Università di Wurzburg), Paul A. Byrne M.D. (neonatologo – St. Vincent’s Medical Center – USA), Robert Spaemann (filosofo – Università di Monaco), modera Cinzia Caporale (bioeticista – CNR).
“Mors est finis vitae: la morte non è solo ‘la’, ma è anche ‘il’ fine della vita umana, il momento che svela il significato”, osserva Roberto de Mattei, vice presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, che ha curato il volume. “E il progresso scientifico e tecnologico applicato alla medicina ha introdotto nuovi motivi di riflessione: accanimento terapeutico, ‘testamento biologico’, eutanasia e suicidio assistito, richiesta di sospensione delle terapie, cure palliative e soprattutto prelievo di organi a fini di trapianto”.
“Un dibattito aperto che, per i suoi risvolti medici, giuridici, filosofici e morali, coinvolge sia ambienti laici che religiosi” aggiunge Rosangela Barcaro. Fino agli anni ‘60, si riteneva che l’accertamento della morte dovesse avvenire mediante il riscontro della definitiva cessazione delle funzioni vitali: respirazione, circolazione, attività del sistema nervoso. Ma nel 1968 una Commissione della Facoltà medica di Harvard propose un nuovo criterio, allora indicato come ‘coma irreversibile’, fondato sulla definitiva cessazione delle funzioni dell’encefalo. “I criteri di Harvard sono stati pubblicati senza nessun dato clinico-statistico relativo a pazienti. In realtà la morte cerebrale non è la vera morte” afferma deciso Byrne, criticando anche “l’uso del termine ‘irreversibile’, che non è un concetto empirico e non può essere empiricamente determinato. Eppure il criterio della morte cerebrale è stato accolto in tempi rapidi nella legislazione e nella pratica medica della maggior parte degli Stati del mondo”.
Dagli anni ’80, però, nel mondo scientifico hanno iniziato a diffondersi perplessità e dissensi sulla validità di tale criterio fondato sulla ‘teoria dell’integratore centrale’, secondo cui l’organismo, quando l’encefalo cessa di funzionare, si riduce a una collazione di organi, parti corporee non integrate funzionalmente. Non a caso i criteri di Harvard seguono di pochi mesi il primo trapianto di cuore. “Per mero interesse si è sviluppato un nuovo criterio per dichiarare morte le persone” accusa Byrne. “Per ottenere un cuore sano da destinare al trapianto non ci sono altri modi a meno che prelevarlo da un paziente vivo. E rimuovere un organo vitale sano da un soggetto dichiarato a termini di legge cerebralmente morto, ma non biologicamente tale, sotto il profilo etico è inaccettabile”. Concorda Bekmann: “Il fatto che la dichiarazione di morte cerebrale come nuovo criterio di morte fosse pilotato da interessi non è una prova della sua inesattezza, però è un elemento da indagare. La possibilità di prelevare organi potrebbe essere un motivo di tutto rispetto, considerando che un trapianto a buon fine può salvare molte vite. Ma un fine nobile non giustifica qualsiasi mezzo per raggiungerlo”.
La realtà clinica, inoltre, ha mostrato molti casi nei quali, alla cessazione irreversibile delle funzioni cerebrali, non è seguita la perdita del funzionamento integrato dell’organismo sottoposto a rianimazione: funzioni endocrino-ipotalamiche e di regolazione neuroormonale sono state conservate. Obietta Spaemann: “Un corpo capace di risposte vegetative che richiedono una complessa coordinazione muscolare non è ovviamente in quella condizione di dis-integrazione che ci permetterebbe di dire che non è vivo”. Byrne porta la propria esperienza: “Donne in gravidanza morte cerebralmente, opportunamente assistite, sono sopravvissute fino a partorire un bambino normale. Io personalmente, nel 1975, ho curato un neonato in ventilazione artificiale da sei settimane, il cui elettroencefalogramma (EEG) era compatibile con lo stato di morte cerebrale. Dopo due giorni in cui l’EEG non era cambiato, fu suggerito di scollegarlo dal respiratore, ma decisi di non farlo. In seguito le condizioni migliorarono, si disabituò al respiratore, fu dimesso ed ebbe una crescita e uno sviluppo normale. Ora fa il pompiere”.
Ulteriori interrogativi riguardano i criteri neurologici da utilizzare per l’accertamento del decesso. “In Gran Bretagna i medici fanno riferimento alla funzionalità del solo tronco encefalico e non impiegano accertamenti strumentali a conferma della valutazione clinica. Al contrario, in Italia ci si riferisce alla funzionalità dell’intero encefalo, compreso il tronco encefalico, e per legge è obbligatorio l’esame elettroencefalografico”, avverte Barcaro.
“Se la morte di un essere umano e la perdita delle funzioni cerebrali sono per definizione comparate, ogni critica a questa ipotesi è inconcludente” spiega Spaemann. “Resta da chiedersi se ciò che viene definito in questo modo sia realmente ciò che tutti gli uomini hanno abitualmente chiamato ‘morte’”. “Un essere umano in stato di morte cerebrale non è un ‘cadavere’” aggiunge Bekmann, “sotto il profilo giuridico, non esiste una terza condizione dell’essere tra l’essere in vita o morti”.