Dal “medico della mutua” alla evidence-based medicine: all’apparenza una commedia all’italiana spiritosa e brillante, “Il medico della mutua”, diretto nel 1968 da Luigi Zampa e ispirato all’omonimo romanzo di Giuseppe d’Agata, è una critica senza sconti al sistema sanitario di quegli anni. Il contrario della cosiddetta “evidence-based medicine”, secondo la quale un bravo dottore assiste i pazienti, integrando la propria esperienza clinica con le ricerche biomediche, tenendo conto anche della specificità del singolo individuo.
All’apparenza una commedia all’italiana spiritosa e brillante, “Il medico della mutua”, diretto nel 1968 da Luigi Zampa e ispirato all’omonimo romanzo di Giuseppe d’Agata, è una critica senza sconti al sistema sanitario di quegli anni. Guido Tersili, il protagonista interpretato da Alberto Sordi, è uno stipendiato della mutua che si arricchisce istituendo un vero e proprio “mercato dei mutuati”, ricevendo una percentuale per ogni visita ed esame specialistico prescritto, fornendo diagnosi improbabili agli oltre 3mila pazienti accumulati. Questi ultimi ne approfittano per farsi prescrivere ricette e avere gratis farmaci e terapie anche inutili, tanto paga la mutua (“Be-sick.. It’s free”, il titolo in inglese del film è esemplificativo). Insomma, il contrario della cosiddetta “evidence-based medicine”, così definita dal medico americano David L. Sackett, secondo la quale un bravo dottore assiste i pazienti, integrando la propria esperienza clinica con le ricerche biomediche, tenendo conto anche della specificità del singolo individuo.
All’epoca dell’uscita del film la sanità in Italia era gestita in maniera diversificata da vari istituti mutuo-previdenziali. “Fino al 1978, la sanità pubblica era organizzata sul modello delle assicurazioni sociali categoriali, come le casse mutue malattia per i lavoratori dipendenti, gli statali, i lavoratori autonomi, dove il diritto alle prestazioni scaturiva da prelievi sulla busta paga e da contributi dei datori di lavoro”, spiega Andrea Filippetti dell’Istituto sui sistemi regionali federali e sulle autonomie “Massimo Severo Giannini” (Issirfa) del Cnr.
Per le prestazioni di emergenza non coperte dalla mutua e per i cittadini indigenti esisteva il cosiddetto “medico condotto”, dipendente dal Comune, che si occupava anche di igiene e salute pubblica. Un sistema sanitario scoordinato che non teneva conto della natura complessa e interdipendente delle varie patologie, per cui bisognava rivolgersi a istituti diversi a seconda della malattia. Lo spartiacque fra il sistema delle mutue e l’attuale Servizio sanitario nazionale (Ssn) è la legge 833 del 1978, con la nascita delle Usl, Unità sanitarie locali, che comprendevano servizi di base e specialistici di medicina ospedaliera e di urgenza, garantiti a tutti i cittadini e non solo ai lavoratori. “Il funzionamento e il finanziamento del Ssn sono fondati sul principio costituzionale della tutela alla salute (art. 32) e sui principi della universalità, uniformità e solidarietà”, continua Filippetti. “Dal 1978, il sistema di finanziamento del sistema sanitario viene imperniato integralmente attorno al ruolo dello Stato centrale, secondo un modello di finanza derivata. Lo Stato raccoglieva il gettito e lo ripartiva tra le Regioni, attraverso trasferimenti, all’interno del Fondo sanitario nazionale”.
Nel tempo, il nostro Ssn è stato oggetto di profonde ristrutturazioni. “A partire dal 1992 sono stati realizzati una prima serie di interventi per aumentare l’autonomia delle Regioni, sia nella gestione amministrativa, sia nel reperire le risorse finanziarie necessarie al finanziamento del sistema”, prosegue il ricercatore. “La riforma Bindi del 1999 ha introdotto i livelli essenziali di assistenza (Lea), seguendo il principio di evidence-based medicine: lo Stato si propone di garantire degli standard minimi per tutti i cittadini sul territorio nazionale, perseguendo la compatibilità tra prestazioni e vincoli di finanza pubblica. Alle Regioni spetta invece il compito di assicurare, tramite l’organizzazione dei rispettivi servizi sanitari regionali, l’erogazione delle prestazioni comprese nei Lea”.
L’attuale emergenza sanitaria Covid-19 è sicuramente un banco di prova per Stato e Regioni, da alcuni considerato un “braccio di ferro”. Al di là di ogni considerazione politica, la pandemia ha rivelato il ruolo cruciale della medicina territoriale nella gestione dell’emergenza sanitaria e nel contenimento dei contagi. Una gestione intelligente dovrebbe, dunque, essere articolata secondo il territorio. “La pandemia in corso ha la caratteristica di avere portata nazionale ma di essere al contempo estremamente differenziata a livello territoriale: il decentramento potrebbe risultare efficace, laddove il Governo centrale stabilisse gli interventi generali e il sistema regionale adattasse tali interventi alle specifiche esigenze del territorio, attraverso un coordinamento tra livelli di governo”, conclude Filippetti.
Fonte: Almanacco della Scienza – CNR