Luci che ci rubano il cielo

Numerosi studi scientifici hanno evidenziato gli effetti dell’inquinamento luminoso sull’ecosistema, l’alterazione del ciclo naturale giorno-notte sulla flora, con modificazioni nella crescita e nella fotosintesi, sulla fauna, con conseguenze sull’orientamento, accoppiamento e migrazione, soprattutto per le specie notturne degli animali, e sulla nostra salute, a partire dalla diminuzione della secrezione di melatonina, l’ormone responsabile dei ritmi circadiani di sonno-veglia. Le fonti luminose, come quelle dei lampioni stradali e delle insegne diretti verso l’alto, “rompono” l’equilibrio luce-buio, dando luogo all’inquinamento luminoso. La luce artificiale, più intensa di quella naturale, cancella le stelle dal cielo, facendoci vedere solo le stelle più luminose. Sono varie le tipologie di inquinamento: da quello naturale, con le aurore e le stelle, a quello militare, con gli impianti inquinanti, da quello pubblico delle città e delle zone extraurbane, a quello privato delle case e delle industrie, le strutture più inquinanti.

Legato all’inquinamento luminoso è anche lo spreco energetico, derivante da una mancata ottimizzazione dell’illuminazione artificiale, spesso eccessiva e inutile, specie se rivolta verso l’alto. “Osservare le foto della superficie terrestre riprese durante i passaggi notturni della Stazione spaziale internazionale dà l’idea di come sia distribuita la presenza umana sul Pianeta e quale sia l’impatto delle attività economiche e di sfruttamento ambientale. Lo spettacolo, visto dall’orbita, è straordinario, con le luci delle città in evidenza assieme alle vie di comunicazione, le coste e il percorso dei grandi fiumi”, afferma Luciano Anselmo dell’Istituto di scienza e tecnologie dell’informazione “Alessandro Faedo” (Isti) del Cnr. “Perfino in aree desertiche, sedi di campi petroliferi, il gas naturale in eccesso estratto assieme al petrolio viene incessantemente bruciato, producendo grandi fiammate, per non parlare degli incendi appiccati alle foreste tropicali o alle potenti lampare usate da grandi flotte da pesca, come quella giapponese”.

L’International Dark Sky Association ha stimato che il 35% della luce artificiale, anziché illuminare edifici e strade, si perde nel cielo, con uno spreco energetico che, solo negli Stati Uniti, equivale a tre miliardi di dollari l’anno. “A causa di questa dispersione luminosa, che coinvolge un po’ tutto il mondo, non ci rimette solo il portafoglio”, continua il ricercatore. ”Il bagliore di sottofondo che caratterizza le nostre notti cittadine non ha solo alterato il ciclo vitale di uccelli, insetti e altri animali, ha anche cancellato dalle nostre esperienze quotidiane la visione diretta del cielo stellato. Molti dei bambini che nascono oggi probabilmente non lo vedranno mai e l’80% della popolazione terrestre si trova già in questa condizione, tanto che quando astri particolarmente brillanti, come i pianeti Venere, Giove e Marte fanno capolino nei nostri cieli privi di stelle, vengono non di rado scambiati per Ufo”.

Le foto dai satelliti rendono visibile il fenomeno in tutta la sua gravità: l’Europa è illuminata a giorno, l’Italia ha un inquinamento maggiore al Nord e nelle grandi città come Milano, Torino, Roma e Palermo. “Non sarebbe complicato fare un uso più efficiente e assennato dell’illuminazione notturna, regolandone l’intensità, concentrandola dove effettivamente serve e aggiungendo specchi, schermi e filtri che ne impediscano la dispersione e il conseguente spreco dove è inutile, cioè verso l’alto”, aggiunge Anselmo. “La riscoperta del cielo stellato e la protezione dall’inquinamento luminoso di aree apposite che consentano a bambini e adulti di riscoprire la propria profonda connessione con le stelle e l’universo, dovrebbero entrare a far parte delle priorità educative e culturali di un Paese proiettato verso il futuro, oltre a rendere ancora più belle e vivibili le nostre città. E sempre più spesso iniziative di questo genere stanno prendendo piede nel mondo”.

Negli ultimi anni, un’altra minaccia per la fruibilità del cielo stellato si è concretizzata anche per gli astronomi professionisti, che ormai da molti decenni hanno dovuto trasferire i loro sofisticati osservatori in luoghi remoti come le Ande cilene o le isole Canarie, per allontanarsi dalle interferenze della civiltà e per godere delle condizioni ambientali più propizie alle osservazioni. “La minaccia, questa volta, arriva dallo spazio, e non c’è luogo della Terra che possa sfuggirle. Si tratta delle mega-costellazioni di satelliti, punta di diamante della cosiddetta New Space Economy. In pratica, sono sistemi che comprendono diverse migliaia, o addirittura decine di migliaia di satelliti, collocati grosso modo tutti alla stessa altezza, ma distribuiti in maniera tale da ricoprire in ogni momento quasi tutta la Terra uniformemente”, prosegue l’esperto. “Con questi numeri e questa distribuzione di oggetti – solo per i prossimi dieci anni ne sono stati proposti più di 100.000, anche se non tutti voleranno poi davvero – la vita di telescopi e radiotelescopi si complicherebbe enormemente, poiché sarebbe molto difficile pianificare sessioni osservative senza che alcuni di questi satelliti passino nel campo di vista del telescopio, sia ottico che radio, disturbando le osservazioni di astri enormemente più deboli e lontani. Dopo la sparizione del cielo stellato per gran parte degli abitanti del Pianeta, anche l’astronomia basata a Terra rischia quindi di trovarsi a una svolta epocale e molto rischiosa”.

Un canale di comunicazione è stato aperto, e sono in fase di studio iniziative per la possibile mitigazione del problema. “Non esistono soluzioni facili e la situazione, a livello globale, potrebbe perfino complicarsi se altri attori privati entrassero in gioco senza regole condivise in grado di limitarne le azioni. Ho comunque la spiacevole sensazione, dopo aver assistito nel corso degli anni alla sparizione del cielo stellato dalle città in cui ho vissuto, di trovarmi ora alle soglie di un’epoca in cui non sarà nemmeno più possibile condurre certi studi dello spazio profondo dalla superficie della Terra”, conclude Anselmo.
Fonte: CNR-Consiglio Nazionale delle Ricerche
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