Salwa al-Neimi racconta l’illecito: nell’amore, nel matrimonio, nella famiglia, nella vita delle donne arabe. Lo sguardo lucido e illuminato di una donna che vive senza inibizioni, né proibizioni, la sua sessualità, la sua femminilità, la sua vita, scegliendo e prendendo ciò che vuole per se stessa.
Il libro
Otto racconti brevi, intensi, che esprimono con grande forza e coraggio un desiderio di libertà e riscatto. Da Ventre, sulla maternità illecita e la società che non perdona, ad Angeli, dove il sarcasmo pungente di Salwa al-Neimi mette alla berlina la rispettabilità presunta del matrimonio, attraverso un marito devoto che teme di accostarsi a sua moglie dopo il Ramadan, perché teme di perdere la conquistata purezza, ma non per questo disdegna le avances dello Shaikh. O, uno per tutti, il meraviglioso Siesta, inno alla libertà di decidere di vivere la propria vita sessuale in maniera libera e senza inibizioni: un uomo e una donna si incontrano ad un convegno sul ruolo della donna nei paesi arabi – l’autrice è abilissima, sottile ed ironica nel mettere in scena la sensualità discreta dell’approccio dei due e il simposio dei massimi esperti che si affannano a dimostrare che la donna araba non può avere un ruolo di responsabilità nella società perché non è in grado di gestirlo – tra loro c’è una forte attrazione, i due non resistono, e lei cede alla tentazione senza rimorsi, senza paure. Otto racconti dove Salwa al-Neimi critica e sbeffeggia le impalcature che circondano le strutture sociali e proteggono, oscurandola con una facciata di falsità e buonismo, una società corrotta e ipocrita. Otto storie pervase di una femminilità piacevolissima, di una bellezza primitiva e irriverente, scritte con tagliente ironia e grande passione.
Salwa al-Neimi
Traduzione: Francesca Prevedello
Collana: I Narratori – Feltrinelli Editore
Pagine: 112 Prezzo: Euro 11
Estratto
Salwa al-Neimi, Il libro dei segreti
Traduzione di Francesca Prevedello
[da 1]
La camera è al buio. Io tengo gli occhi ben aperti. Un rumore di passi che, cautamente, si avvicinano. La porta che si apre. La voce di mia madre: “Lasciamola dormire”. Il sussurro di mia sorella: “Voglio controllare che stia bene”. E io che non mi muovo ma tengo gli occhi ben aperti per vedere il buio.
Lui aveva una camera piena di luce nonostante le tende che celavano l’ampia finestra. Lasciavano filtrare un tripudio di luce mattutina che mi si riversava addosso. “Resta così, di schiena, non muoverti,” mi ha ripetuto. Provarci? Non provarci?
Provo a rimanere distesa, occhi ben aperti, ferita aperta. Dentro di me, un bastoncino sottile come un germoglio sul quale serro forte le cosce, avida come un avaro.
“Perché non lo teniamo?” aveva detto lui. Era la frase che doveva dire (o che, secondo lui, avrebbe dovuto dire). L’ha pronunciata in fretta, se ne è sbarazzato gettandomela in faccia (a me, che parlo incessantemente con me stessa e già me l’ero ripetuta, quella frase, fin dall’inizio).
Abbiamo discusso a lungo, a lungo esitato, ma ormai la palla era nella mia metà campo: erano solo mie le mie parole, solo miei i miei sogni, le mie transitorie esitazioni. La mia risposta è stata quella che si aspettava (o che, secondo me, si stava aspettando) e, sotto il sole di Damasco, abbiamo continuato a passeggiare lungo il viale alberato progettando le mosse a venire, come due innamorati.
La camera era piena di luce e io ero sola. “Vado a comprare qualcosa da mangiare,” aveva detto lui, “sarai affamata.” Non lo ero. Era lui a voler mangiare, a volersi alleggerire di quell’oppressione che, insieme, stavamo portando. “Faccio in fretta,” aveva detto ridacchiando, “non aver paura.” “Non ho paura,” gli ho risposto. “Mio fratello mica mi sgozza.” Ho ridacchiato anch’io e lui, guardandomi fisso, ha chiuso la porta.
Non avevo paura. Non ho avuto paura, ieri. Accadeva tutto quanto, ma come a un’altra. Stavo dormendo e mi sono svegliata nel mio sangue.
Lei no, non si era svegliata nel suo sangue.
Lei, l’avevano sgozzata mentre dormiva.
Lui, l’anno scorso era partito all’improvviso per una città lontana e ne era tornato incupito. Il motivo?
Doveva trovare un buon avvocato che difendesse un suo parente.
“Cos’ha fatto?”
“Ha ammazzato sua sorella.”
Quasi quasi saltavo sulla sedia.
Ha dovuto, volente o nolente, raccontarmi tutto. Le mie domande puntigliose non hanno risparmiato nemmeno i minimi dettagli. Per ore, in solitudine, ho provato a raffigurarmela: una ragazzina di campagna con la pancia lievitata, un coltello, sangue vivo che zampilla come da una fontana, un grido, dei pianti, un singhiozzo. “Come si chiamava?” gli ho chiesto.
“Non lo so, conosco solo il nome della famiglia.”
Le ho dato io un nome. La vedo, la tengo nascosta nel cuore delle mie storie segrete. […]