Potere e dominio nelle pratiche di cura
Felice Di Lernia
Edizioni La Meridiana
Il tema del potere è parte integrante della formazione accademica e della organizzazione corporativa di medici, psicologi, pedagogisti, educatori, insegnanti e assistenti sociali. L’uso che se ne fa è il tema centrale che queste pagine, con inconsueto coraggio e acuta profondità di analisi, affrontano. Il confine tra potere e dominio si gioca sulla scelta-capacità-possibilità di accompagnare. La cura che insegna, come la scuola, a non fare errori non accompagna nell’errore. E siccome l’errore è cambiamento, la conseguenza è che la cura, come la scuola, non accompagna nel cambiamento. Diviene il luogo proprio del dominio. Chi si prende troppo sul serio non accompagna ma porta. Il potere accompagna, il dominio, invece, porta.
Addomesticare il discorso politico con gli argomenti della antropologia medica. Per usare le parole dell’antropologo Francesco Remotti: la sfida è quella di trasformare un mucchio di rimasugli o di spazzatura in un insieme di relazioni, in un contesto formato da connessioni significative, le quali possono, anzi dovrebbero avere la forza di integrare almeno in parte i nessi dell’ordine di partenza. E’ lo stesso Felice Di Lernia a indicare l’ambiziosa meta del suo nuovo libro “Ho perso le parole”, pubblicato dalle Edizioni La Meridiana (collana premesse, 256 pagine, 20 euro), un testo che analizza “potere e dominio nelle pratiche di cura”. Di Lernia, antropologo, da oltre vent’anni si occupa di pratiche di cura in ambito medico, socio-sanitario, psico-pedagogico e scolastico.
Formatore senior, supervisore e consulente, coordina il Centro Studi Télos della Comunità Oasi 2 di Trani che ha fondato nel 1986 e della quale è direttore scientifico. Il titolo del libro cita una canzone del rocker Ligabue, perché, osserva di Lernia, sono le parole che costruiscono le occasioni, che creano il senso, che istruiscono le pratiche. “La parola, ogni parola, ha una sua volontà e per questo la parola è un soggetto. Questo lavoro, in fondo, è dedicato a ciò che alla fine resta: le parole. Le parole per curare e le parole per curarsi”. La scelta di prestare attenzione alle pratiche di cura, spiega Di Lernia, non è casuale. “Occuparsi delle ‘teorie’ di cura significherebbe, infatti, occuparsi del ‘come le relazioni di cura dovrebbero essere’.
Le pratiche, invece, si danno nel concreto agire delle relazioni, nel ‘come realmente sono’. Non mi interessa, cioè, sviluppare qui una ‘grammatica’ delle relazioni di cura, quanto seguirne i diversi sviluppi ‘linguistici’: opto per un approccio descrittivo, piuttosto che prescrittivo. Perché a discutere di teorie si rischia sempre di perdersi nella ricerca di una coerenza teoretica fine a se stessa. Lo studio delle pratiche, invece, lungi dal configurarsi come accanimento fenomenologico, consente di agganciare la riflessione complessiva ad un livello di analisi che è fondamentale nel ragionamento sulla cura delle persone”.
Per Di Lernia le pratiche si costituiscono quali “implicazioni” concrete di idee “implicite”. La relazione, il tipo di vincolo finalistico che lega le due parti, scrive l’autore, “sarebbe quindi costituita da tre diversi livelli di significato: a monte un grappolo di saperi impliciti, a valle una pratica concreta, sullo sfondo una teoria di riferimento. Mentre monte e valle stanno, tra loro, in un collegamento necessario, la teoria resta sullo sfondo come una scenografia: può essere adeguata allo scopo di ‘giustificare’ le pratiche, può risultare congruente con lo spirito di queste, può addirittura rivelarsi efficace nel contribuire al raggiungimento dello scopo, ma resta, in ogni caso, legata alle pratiche da un nesso di tipo arbitrario”.
L’autore affronta anche il tema della narrazione, perché, scrive, il bisogno di narrare è bisogno di conoscere, di conoscersi e di essere ri-conosciuto dall’altro. In questa prospettiva la narrazione può essere considerata tentativo di superamento della condizione di “datità dell’io” e di “finitudine” ontologica, giacché nella relazione con l’altro c’è l’apertura di possibilità ulteriori e, tra queste, quella del trascendimento di sé o della condizione soggettiva e collettiva del dolore. E il dolore, dice Lombardi Satriani “frantuma, lascia irrimediabilmente l’uomo nella sua datità”. Il dolore resiste alla oggettivazione, non si fa narrare. Per Di Lernia “l’esperienza del limite, della umana finitezza, della ontologica vulnerabilità dell’esistente, è esperienza paradigmaticamente inenarrabile. Il lutto, ad esempio, non si può narrare, si può semmai esibire, e viverlo intensamente, questo sì. Il lutto, come il dolore cronico, come la malattia incurabile, trasforma il rapporto col senso comune, restituisce un mondo cambiato: il tempo collassa, le gerarchie tra le cose mutano il loro ordine, separa il mondo, che si credeva fuso, in mondi differenti, quello di chi soffre e il resto del mondo”.
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