Una nuova molecola, allo studio presso il Dip. del Farmaco dell’ISS, promette di essere un valido punto di partenza per la messa a punto di farmaci in grado di porre fine alle sofferenze di quei pazienti, ancora troppi, che soffrono di dolore cronico e in cui l’attuale terapia del dolore si dimostra inefficace. A tal fine sta lavorando un gruppo di ricercatori del Dipartimento del Farmaco dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), alle prese con una molecola mostratasi efficace nel prevenire la risposta delle terminazioni nervose deputate a riconoscere le sensazioni di dolore.
“La nostra ricerca – spiegano Stefano Pieretti e Amalia Di Giannuario, ricercatori del Dipartimento del Farmaco dell’ISS – condotta in collaborazione con l’Università di Firenze e il gruppo farmaceutico ACRAF, si basa su un nuovo derivato 4-amino-5-vinil-3(2H)-piridazinonico, che si è rivelato molto potente nel prevenire la risposta nocicettiva, ossia la risposta comportamentale evocata dalla stimolazione dei recettori del dolore, in modelli sperimentali animali di dolore in vivo. In particolare questa nuova molecola mostra nei modelli sperimentali utilizzati di essere più attiva della morfina dopo somministrazione orale nel topo mediante un meccanismo che coinvolge il sistema adrenergico, facente parte del sistema endogeno di controllo del dolore”.
“I farmaci tradizionali impiegati nella terapia del dolore – vanno avanti i ricercatori – oltre ad aver ampiamente dimostrato la loro scarsa efficacia nel trattamento di alcune sindromi croniche come, ad esempio, il dolore neuropatico, producono spesso effetti collaterali talvolta anche gravi. Per tutte queste ragioni, la ricerca sul dolore è molto attiva, volta sia a chiarire le modalità di funzionamento dei sistemi endogeni preposti al controllo e alla modulazione del dolore che all’individuazione e caratterizzazione di nuove molecole attive su tali sistemi”.
L’indagine PainSTORY
Il 19% circa della popolazione europea soffre di dolore cronico severo. Un dolore che viene spesso sottovalutato e, quindi, non curato adeguatamente. A questa conclusione è giunta PainSTORY (Pain Study Tracking Ongoing Responses for a Year), un’indagine, la prima del genere, condotta per un anno su circa 300 pazienti con dolore cronico in 13 Paesi europei, da una compagnia di ricerca indipendente, la Ipsos Mori, in collaborazione con altri istituti di ricerca (la European Federation of IASP Chapters, il World Institute of Pain e l’OPEN Minds). I risultati dell’indagine, presentati di recente in un congresso sul dolore svoltosi a Lisbona, sono consultabili sul sito www.painstory.org.
La ricerca ha messo in luce come dopo un anno di cure oltre la metà dei pazienti (6 su 10 per l’esattezza) sentono che il dolore cronico da cui sono afflitti influenza terribilmente la loro vita, in particolare le relazioni con gli amici, con i familiari e con i colleghi. Il 95% dei pazienti esaminati non ha trovato alcun giovamento dalle cure e soffre ancora costantemente, mentre per il 19% il dolore è addirittura peggiorato.
E ancora: 8 pazienti su 10 hanno lamentato un peggioramento significativo della qualità della vita. In particolare: il 64% ha dichiarato di avere difficoltà a camminare, il 30% riesce con difficoltà a lavarsi e vestirsi, il 60% ha problemi di insonnia, il 73% lamenta problemi nello svolgimento delle attività quotidiane, il 53% non riesce a prendersi cura dei propri bambini.
Oltre alla cura di se stessi, della famiglia e della casa, anche il lavoro diventa insostenibile. Il 65% teme di doverlo abbandonare, il 38% è stato costretto a cambiare modo di lavorare e il 33% ha dovuto ridurre le ore di lavoro. La metà di tutti i pazienti, poi, ha riportato vari effetti collaterali dovuti all’uso soprattutto degli oppioidi. Nonostante ciò, il 64% dei pazienti è convinto che il trattamento a cui sono stati sottoposti sia quello giusto e oltre la metà crede che sia stata fatta ogni cosa possibile per aiutarli.
Non va certo meglio dal punto di vista emotivo. Il 44% del campione esaminato si sente terribilmente solo nell’affrontare il dolore, che provoca nei due terzi dei pazienti ansia e depressione. Per il 28% delle persone arruolate, poi, il dolore è giunto ad un livello tale che preferirebbero morire. Infine, un terzo dei pazienti percepisce di essere trattato dagli altri in maniera differente e di avere per questo meno amici. Quasi tutti, insomma, si sentono come incatenati, intrappolati da un dolore che può variare nell’intensità, ma che “contagia” ogni aspetto della loro vita.
Per saperne di più: il sito dell’Istituto Superiore di Sanità