Italiani e farmaci: bene la copertura pubblica, ma non in tutte le regioni. E il 69% è favorevole alla vendita dei medicinali anche nei supermercati. Secondo il 27,6% degli italiani stare bene vuol dire «sentirsi in forma, essere in grado di svolgere le normali attività» (-7,9% rispetto alla precedente indagine del 1998).
A crescere nell’ultimo decennio è stato il consenso alla definizione di stato di salute come «assenza di malattie», fatta propria da quasi il 22% degli intervistati, con un balzo di quasi 10 punti percentuali. Rispetto al passato, l’invecchiamento della popolazione e la crescente competizione sociale e lavorativa spostano l’attenzione verso un nucleo essenziale e pragmatico del concetto di buona salute, come l’assenza di malattie conclamate o la semplice capacità di operare nel quotidiano.
Non più solo stili di vita salutari, contano anche ambiente e fattori ereditari. Cosa conta di più per stare bene? La spinta martellante contro il fumo e altri comportamenti nocivi per la salute sembra aver ridotto i propri effetti. Diminuisce la quota di italiani che individuano nelle abitudini e nello stile di vita del soggetto i fattori che promuovono la buona salute (-21,6% rispetto al 1998). Cresce in modo significativo il richiamo alle condizioni ambientali (indicate dal 22,2% degli intervistati, +10% rispetto al 1998) e ai fattori ereditari (8,9%, +6%).
L’autocura matura di anziani e laureati. La gamma di comportamenti in caso di sintomi lievi di malattia è articolata. Il 47,6% tenta di curarsi stando a casa, migliorando l’alimentazione e/o con il riposo, e questa percentuale aumenta al crescere dell’età e del titolo di studio. In pratica, l’autocura per i malesseri lievi richiede l’esperienza (è il caso degli anziani) o la capacità di gestire informazioni e conoscenze (è il caso dei più istruiti). In caso di sintomi gravi, però, più del 73% degli italiani consulta subito il medico di base, che diventa un referente professionale da utilizzare al meglio nell’autogestione della propria salute.
Medico über alles. Gli italiani seguono le prescrizioni dei medici sui farmaci. In caso di malattia grave è oltre il 90% a rispettare le prescrizioni delle dosi e della durata della cura (percentuale aumentata di oltre 10 punti rispetto al 1998), e anche per le malattie lievi la quota di coloro che seguono alla lettera le prescrizioni mediche è salita ad oltre il 54% degli intervistati (era intorno al 38% nella precedente indagine del 1998).
Chi consuma troppi farmaci? Riguardo alle persone che gli italiani conoscono come consumatori eccessivi di farmaci, essi ritengono che la responsabilità non sia tanto dei medici (indicati solo dall’11,7%) o dell’industria farmaceutica (10,1%), ma piuttosto della personalità stessa dell’individuo (74,7%), dello stress e dell’ansia che vive, che lo portano a un uso del farmaco come strumento di rassicurazione.
Copertura pubblica ok, anche con il ticket. Gli italiani sono soddisfatti della copertura farmaceutica pubblica: quasi il 61% ritiene sufficiente la disponibilità di farmaci mutuabili rispetto alle proprie esigenze di salute. La percentuale, però, cambia a seconda del territorio: si passa da oltre il 60% dei cittadini nel Nord-ovest al 62,5% nel Nord-est, a più del 78% al Centro, per poi scendere sotto il 49% tra i residenti del Sud.
Fiducia al farmacista, ma apertura alla grande distribuzione. Dall’indagine è emersa una persistente fedeltà dei cittadini alla farmacia di fiducia (il 67% degli intervistati si rivolge di solito alla stessa farmacia). Il farmacista (77%) segue il medico di medicina generale (97%) come soggetto che, secondo gli intervistati, deve dare informazioni sui farmaci. Fiducia al farmacista e fedeltà alla farmacia, dunque, con il pieno riconoscimento del ruolo sociale di entrambi. Ma non c’è preclusione verso l’evoluzione delle modalità distributive. Oltre il 69% degli italiani è favorevole alla possibilità di vendere i farmaci in luoghi diversi dalle farmacie, anche se per il 56,6% deve avvenire sempre e comunque in presenza di un farmacista nel punto vendita.
Biotecnologie e genetica: più speranze che paure. Il 65% degli italiani ritiene che debba essere sviluppata la ricerca biotecnologica, sia pure limitatamente al campo della salute. Il 66% condivide la necessità di potenziare l’ingegneria genetica, purché utilizzata per correggere geni che provocano malattie, mentre è solo il 10% a puntare sulla genetica come mezzo di potenziamento dei caratteri estetici o delle performance dei figli. Sulle paure e le riserve etiche rispetto al cammino della ricerca scientifica, prevale la speranza di ottenere ulteriori importanti contributi per il miglioramento della vita individuale e collettiva, in linea con quanto accaduto finora.
Questi sono alcuni dei risultati di una ricerca del Censis e del Forum per la ricerca biomedica presentati oggi a Roma, presso la sede del Censis, e discussi dal Presidente del Censis Giuseppe De Rita, il Vicedirettore Carla Collicelli, il responsabile del settore Politiche sociali Francesco Maietta e il Direttore dell’Aifa Guido Rasi.