Uno studio del Cnr di Milano e dell’Università di Milano-Bicocca fa luce su quello che accade nel cervello quando empatizziamo con i bambini. Sfatato un luogo comune: per comprendere maggiormente lo stato emotivo dei piccoli l’essere donna non basta, serve l’amore materno.
Come ogni genitore sa, i bambini comunicano con il pianto e le espressioni facciali. Affinché siano soddisfatti i loro bisogni occorre perciò che gli adulti empatizzino (l’empatia è la risposta automatica del cervello alla percezione dello stato fisiologico o psicologico di un’altra persona) con il loro disagio e rispondano in maniera adeguata alle loro necessità.
Ma gli adulti sono in grado di riconoscere lo stato emotivo dei bambini attraverso l’espressione facciale? La risposta è in uno studio condotto da ricercatori dell’Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare del Cnr di Milano-Segrate e del Dipartimento di psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, coordinato da Alice Mado Proverbio e Alberto Zani e reso noto nel corso del meeting annuale della Society for Neuroscience. “Abbiamo messo a confronto l’attività cerebrale di genitori con figli di 2 anni circa insieme a donne e uomini senza figli né bambini piccoli nella parentela e senza nessuna familiarità coi bambini, mentre osservavano centinaia di foto in primo piano di neonati e bambini estranei (felici o sofferenti) di età fino a 18 mesi”, spiega Alice Mado Proverbio. “Lo scopo era quello di stabilire l’effetto del sesso e dell’esperienza parentale nella reazione empatica del cervello alla vista di bimbi sofferenti”.
Sono state testate 40 persone di status socio-culturale medio-alto di età di circa 35 anni. Per ciascun individuo è stata registrata l’attività bio-elettrica del cervello mediante la tecnica dei ‘Potenziali correlati ad eventi’ (ERPs), i quali forniscono informazioni sull’attivazione delle varie regioni del cervello millisecondo per millisecondo. Gli ERP sono stati misurati mentre le persone osservavano le espressioni facciali dei piccoli, allo scopo di decidere se si trovassero in uno stato di benessere o sofferenza. Le donne hanno mostrato inizialmente una risposta più ampia e più precoce degli uomini sulla regione del cervello che ricostruisce la struttura del volto (face visual area, corteccia visiva extra-striata). Tuttavia dopo circa 250 ms dalla presentazione del volto, i genitori di entrambi i sessi mostrano una risposta molto simile tra loro. In particolare mostrano una reazione empatica molto più forte in assoluto a facce sofferenti e diversificano meglio i vari gradi di intensità della sofferenza. Hanno un’attivazione maggiore per espressioni di paura intensa, dolore intenso, o grave sofferenza, piuttosto che di semplice disagio o fastidio. Più blanda invece la reazione dei non-genitori in entrambe le situazioni.
A un livello di elaborazione cosciente (tra i 300 e i 500 ms dopo la presentazione del volto) per le espressioni di grave sofferenza vi è una risposta marcatamente differenziata per le madri rispetto a tutti gli altri gruppi, incluso i padri. Ciò suggerisce che le espressioni addolorate stimolano una reazione empatica più forte nelle madri e allo stesso tempo evitano un’attivazione emozionale eccessiva nei padri. “Questi risultati”, conclude la ricercatrice, “suggeriscono che le differenze tra madri e padri nella risposta affettiva alla sofferenza infantile possono essere dovuti a ragioni di tipo biologico e sociale, dipendente dal fatto che nella nostra società le madri spendono molto più tempo coi piccoli dei padri”.
E’ importante considerare che non sono emerse significative differenze tra gruppi in risposta a facce felici. Ciò esclude che la familiarità coi bambini o l’essere genitori possano essere alla base di tali differenze. Lo studio apre poi la strada alla comprensione della depressione e dei disordini neurologici, caratterizzati da un deficit di empatia, quali autismo e schizofrenia.