Circa due milioni di anni fa l’uomo produsse il primo utensile dal bordo tagliente, un ciottolo scheggiato noto come chopper. Un evento memorabile non tanto per la sua immediata azione pratica quanto perché, per la prima volta nella storia, si trasformava qualcosa di grezzo preso dalla natura, superandola, affermando la propria, unica, capacità di inventare del genere umano.
Ovviamente oggi non sappiamo come tale invenzione sia avvenuta, se in modo fortuito o grazie ad una brillante intuizione derivata dall’esperienza. Certo è che, dal Terziario in poi, la storia si è costellata di scoperte nate apparentemente per caso.
La più nota è certamente la penicillina, studiata nel 1928 da Alexander Fleming. Mentre stava svolgendo ricerche sul presunto agente patogeno dell’influenza, che solo in seguito si scoprì essere di natura virale e non batterica, si assentò dal laboratorio per un breve periodo di vacanza, dimenticando di distruggere alcune colture. Al ritorno osservò la presenza di un alone chiaro inusuale, vicino ad alcune colonie fungine contaminanti, dove i batteri non erano cresciuti.
Solo fortuna quindi? Non esattamente. Come Louis Pasteur affermò nel 1854 a Lille “nell’ambito dell’osservazione scientifica, il caso favorisce soltanto la mente preparata”. Lo scienziato deve avere infatti una visione particolarmente aperta per individuare e comprendere l’importanza dell’incidente inatteso e saperlo utilizzare in modo costruttivo.
“Le scoperte sono basate su teorie e calcoli rivelatisi errati con il tempo”, ricorda Enzo Casolino, già direttore della Biblioteca centrale Guglielmo Marconi del Cnr. “Basti pensare al sistema tolemaico i cui conti sembravano essere esatti, ma che poi è stato confutato e superato. La scienza fornisce sempre certezze limitate nel tempo, in quanto superate da ulteriori livelli di conoscenza: in ciò risiede l’essenza del progresso scientifico. Alla fine la fortuna è solo una delle tante variabili, le scoperte dovute completamente al caso sono una rarità”.
Nel caso di Fleming, l’inibizione della crescita batterica in una limitata porzione della piastra assomigliava a un fenomeno che lo scienziato aveva osservato sei anni prima, provocato da una lacrima caduta casualmente sulla piastra di coltura e che lo aveva condotto alla scoperta del lisozima. Egli stesso ebbe modo di affermare in seguito: “Se non fosse stato per la mia precedente esperienza, avrei subito buttato via la piastra perché contaminata, come molti batteriologi devono aver fatto prima di me.
È molto probabile che altri ricercatori abbiano visto in una coltura gli stessi cambiamenti che ho osservato io, ma, in assenza di un interesse particolare per le sostanze antibatteriche naturali, le colture andate a male siano state immediatamente gettate”. Infatti il medico Vincenzo Tiberio già nel 1895 aveva pubblicato all’Università di Napoli uno studio sugli effetti della muffa osservata in un pozzo vicino la sua casa di Arzano.
“Dato che il sapere della scienza in passato era un accessibile a pochi, era più facile avere picchi di genialità proprio in quanto il livello generale delle conoscenze tecniche era notevolmente più scarso”, conclude Casolino. “Adesso, in un contesto di industrializzazione spinta e di globalizzazione scientifica, lo stimolo a ricercare e la competitività acuita tra gruppi di ricercatori inducono il ricercatore a operare sempre più in forma associata e in laboratori riccamente attrezzati: il che favorisce l’amplificazione delle conoscenze anche presso paesi meno economicamente dotati, velocizza il progresso, ma al tempo stesso è anche un poderoso strumento per favorire la maturazione democratica a livello planetario”.
(Fonte: Almanacco della scienza – CNR)
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