C’è un universo ancora tutto da esplorare sul rapporto tra Giacomo Leopardi e la scienza. Un’incursione in una delle poesie dell’ultimo periodo della sua vita, ‘La Ginestra o il fiore del deserto’, rivela un’interessante e singolare padronanza della vulcanologia e della prevenzione dai rischi vulcanici da parte del poeta. Leopardi è a Napoli, insieme all’amico Antonio Ranieri, durante l’eruzione del Vesuvio del 1834 (23 agosto-10 settembre). Un evento effusivo di portata significativa di cui anche il giornale del Regno delle due Sicilie dà ampia notizia. Il poeta, con uno spiccato spirito di osservazione scientifica, si sofferma a descrivere la violenta attività eruttiva del vulcano e i fenomeni premonitori, come l’aumento della temperatura e del livello dell’acqua dei pozzi.
“Il Vesuvio è da sempre fonte di ispirazione di poeti, artisti, scienziati e giornalisti: da Plinio il Giovane che per primo ne descrive la carica distruttiva in occasione dell’eruzione del 79 d.C. che devastò le città romane di Pompei, Ercolano, Oplonti e Stabia, a Goethe che, durante le sue ascensioni al cono, prende nota di ogni cosa, oggetto o emozione per raccontarlo nel suo ‘Viaggio in Italia’. Senza dimenticare Sir William Hamilton, ambasciatore britannico alla corte dei Borbone, che redige relazioni scientifiche sull’osservazione dei Campi Flegrei e del Vesuvio, ancora oggi fonte di studio e di ricerca”, ricorda Biagio Giaccio dell’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria (Igag) del Consiglio nazionale delle ricerche.
Ma per Leopardi il Vesuvio è qualcosa di diverso. È distruzione. “Tutto ha inizio con il suo soggiorno, nel 1836, presso la Villa Ferrigni a Torre del Greco, alle pendici del vulcano, poi Villa delle Ginestre per l’omonima lirica. È qui che Leopardi compone ‘La Ginestra o il fiore del deserto’, prendendo spunto dalla pianta che in quei luoghi nasce spontanea e riesce ad attecchire dove regna la distruzione, il fuoco, la lava”, continua Giaccio. Un paesaggio di desolazione, quello che si presenta agli occhi di Leopardi, sul quale incombe l’ombra terribile del Vesuvio. Lo sterminatore. “Il Vesuvio è l’icona del paesaggio di Napoli che domina da sempre la tradizione della rappresentazione paesaggistica della città, dai selfie dei nostri giorni alle cartoline storiche ai dipinti dei secoli scorsi. Ma il Monte Somma-Vesuvio non è stato sempre così come lo possiamo ammirare oggi. Nel tempo ha cambiato più volte aspetto e dimensioni, con fasi costruttive e distruttive della sua attività vulcanica”.
Sebbene le testimonianze geologiche documentino attività vulcanica nell’area da diverse centinaia di migliaia di anni, l’edificio vulcanico con la sua classica forma conica si è innalzato solo dopo la grande eruzione di 40mila anni fa dei Campi Flegrei, che ha ricoperto tutta la Campania di una spessa coltre di lapilli e ceneri, raggiungendo anche la Pianura Russa. “Da questo momento viene fissata la nascita del Somma-Vesuvio che, con la sua antica attività effusiva ed esplosiva di moderata intensità, ha dato vita al monte Somma, l’edificio più antico del sistema del Somma-Vesuvio, ancora parzialmente preservato nel settore settentrionale del complesso vulcanico”, prosegue il ricercatore del Cnr-Igag.
Nel corso della sua storia, le fasi di crescita, caratterizzate da eruzioni prevalentemente effusive, sono state periodicamente interrotte da eventi esplosivi parossistici che hanno causato il collasso calderico dell’edificio, ovvero lo sprofondamento del cono vulcanico per cedimento della camera magmatica. “Il cono giovane del Vesuvio che vediamo oggi è, quindi, cresciuto nella caldera che si è formata a seguito dell’eruzione di Pompei”, afferma il ricercatore. “L’attività storica che ha seguito questo grande evento pliniano è stata caratterizzata da eruzioni miste effusive-esplosive di intensità da moderata a medio-alta, come gli eventi sub-pliniani dell’eruzione di Pollena del 472 d.C. e del 1631”.
Il periodo del XVII-XX secolo è sicuramente quello meglio documentato sia dal punto di vista delle descrizioni storiche sia delle produzioni iconografiche, immortalando molte delle 49 eruzioni vesuviane che si sono verificate negli ultimi tre secoli. L’ultima risale al 1944 e l’attuale fase di quiescenza di oltre 70 anni è la più lunga conosciuta dal vulcano dal XVII secolo. “Questa lunga quiescenza potrebbe incidere negativamente sulle attività di prevenzione”, conclude Giaccio. “Nel vissuto dell’attuale popolazione dei comuni vesuviani manca il ricordo dell’attività del vulcano e ancor di più degli eventi esplosivi di forte intensità, come l’eruzione del 1631. In assenza di questa memoria storica, le popolazioni possono nel tempo sottostimare la pericolosità vulcanica, favorendo così l’aumento dell’esposizione al rischio, come accaduto con la crescente urbanizzazione degli ultimi anni. Oggi il Vesuvio è il vulcano più monitorato al mondo. Le uniche incertezze scientifiche riguardano tempo e modo della prossima attività. La probabilità del suo futuro risveglio è altissima e gli abitanti dei comuni vesuviani e di Napoli dovrebbero esserne consapevoli”.
Per saperne di più: Almanacco della Scienza