Resistenza agli stress ambientali e adattabilità ai nuovi habitat: sono queste le caratteristiche che rendono le specie aliene capaci di colonizzare con successo i nostri mari. Tale fenomeno, che i ricercatori osservano da quasi un quarto di secolo, desta non poche preoccupazioni. La presenza di ‘nuovi’ ospiti rappresenta un’emergenza ambientale e una minaccia alla biodiversità. Secondo gli ultimi dati forniti dalla Società italiana di biologia marina (Sibm, dati 2017) sono oltre 200 le Non indigenous species (Nis) che vivono nei mari italiani delle oltre 800 che si trovano nell’intero Mediterraneo.
Pesci tossici, granchi tropicali, alghe infestanti popolano i nostri fondali richiamati dalle condizioni ideali per sopravvivervi, conseguenza del riscaldamento globale, ma anche del degrado e dell’ inquinamento che hanno alterato e modificato il complesso ecosistema marino.
“Circa 25 anni fa il mondo dei biologi marini e l’opinione pubblica furono scossi dalla notizia che in Mediterraneo erano stati trovati ampi prati di Caulerpa taxifolia, la cosiddetta alga killer”, spiega Vincenzo Di Martino, ricercatore dell’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo (Isafom) del Cnr. “In questi anni abbiamo potuto constatare e documentare come, a fronte di una prima ondata di colonizzazione, con il tempo l’estensione dei prati si è ridotta notevolmente, tanto da risultare assente in alcuni areali. Tuttavia, in alcune zone della fascia costiera la Caulerpa taxifolia ha effettivamente avuto la meglio su moltissime specie che non sono state capaci di far fronte alla grande plasticità adattativa di tale alga. E ciò è avvenuto in maggior misura laddove essa ha trovato fondali degradati”.
Il Mar Mediterraneo è considerato tra quelli più invasi al mondo da esemplari alieni, che giungono anche con una certa rapidità. “Le nuove specie possono diffondersi perchè destinate all’acquacoltura, all’acquariofilia o come esche vive. Ma l’immissione di tali organismi può avvenire anche e tramite le navi mercantili, che ospitano sulle proprie carene (fouling) o nelle acque di zavorra (ballast water) tali esemplari”, continua Di Martino.
La conformazione geografica del Bacino poi ne favorisce la circolazione; soprattutto il Canale di Suez, recentemente raddoppiato nella sua larghezza e profondità, è una via di comunicazione aperta con il Mar Rosso e, dunque, l’Oceano Indiano; la penisola italiana e le sue isole sono un punto di transito e sosta obbligato per tutte le specie che si spostano da un settore all’altro. Tra quelle provenienti dal Mar Rosso destano molta attenzione per le eventuali conseguenze sull’economia ittica il granchio Portunus segnis, detto anche granchio blu nuotatore, e il pesce Pterois miles, conosciuto anche come pesce scorpione o pesce leone, dotato di spine dorsali, anali e pelviche velenose che possono causare punture molto dolorose.
“Il granchio blu che stiamo studiando si è diffuso nelle coste orientali della Sicilia ed è molto richiesto dai cittadini extracomunitari provenienti dal sud-est asiatico e dalle nazioni rivierasche dell’Africa orientale, dove questa specie è attivamente pescata per il buon sapore delle sue carni”, conclude il ricercatore. “Il pesce scorpione, che non ha ancora raggiunto alti numeri di esemplari, potrebbe invece rappresentare un futuro problema per la popolazione ittica; è infatti un voracissimo predatore, ma al momento sembra non abbia creato scompensi tra gli stock ittici, anche se le indagini sono appena agli inizi”.
(Fonte: Almanacco della scienza – CNR)
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