Alla nonna elefantessa il nemico non sfugge

Un gruppo di ricercatori che da anni studia famiglie di elefanti dell’Amboseli National Park in Kenya ha dimostrato per la prima volta che più anziana è l’elefantessa capobranco, maggiori sono le sue capacità sociali, e che queste conoscenze sono direttamente collegate al successo riproduttivo dei più giovani membri della famiglia.

Gli elefanti vivono in gruppi familiari di tipo matrilineare, costituiti da una mezza dozzina di femmine e dai loro piccoli, guidati dalla femmina più anziana del gruppo. Sono animali aggressivi e furbi, per questo, in genere, gli incontri con famiglie sconosciute sono preferibilmente da evitare. In media, in un anno ogni gruppo matriarcale incontra una media di 25 famiglie. Durante tali incontri i ricercatori hanno scoperto che le matriarche più anziane sono in grado di determinare rapidamente ed accuratamente se il richiamo di un’altra femmina è familiare. Quando la matriarca non riconosce il richiamo di un altro elefante, ordina alla sua famiglia di riunirsi in gruppo assumendo una posizione difensiva.
Nello studio si è notato che le matriarche over 50 hanno una capacità nettamente superiore di distinguere se il gruppo è amico o nemico, mentre le elefantesse capobranco più giovani, non avendo questa capacità, perdono molto tempo sulla difensiva, ed il gruppo avrà meno tempo da dedicare alla riproduzione. Per questo i gruppi con matriarche over 50 sono generalmente più numerosi e con un numero maggiore di piccoli.
Tale scoperta è importante alla luce della conservazione della specie, perché spesso sono proprio gli elefanti più grandi ed anziani ad essere uccisi dai bracconieri, pregiudicando, così la sopravvivenza di tutto il gruppo familiare. Per la prima volta viene stabilito un nesso tra conoscenze sociali e successo riproduttivo della specie; ciò induce ad una riflessione su quanto possa essere dannosa l’uccisione degli animali adulti da parte di cacciatori e bracconieri.

Scoperte nuove vittime del Vesuvio

Recenti scavi archeologici effettuati lungo l’antica linea costiera di Ercolano hanno portato alla luce una scena raccapricciante: in alcuni locali che avevano la probabile funzione di ricovero per barche sono stati ritrovati gli scheletri di 80 persone, uccise dalla spaventosa eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 d.C. E probabilmente furono proprio loro le prime vittime della terribile catastrofe. Diversamente dalle scene ormai familiari dei ritrovamenti di Pompei e della stessa Ercolano, i cui abitanti morirono soffocati in posizioni di spavento e di fuga, queste prime vittime sembrano essere rimaste uccise all’istante dal calore dell’esplosione, senza avere avuto neppure il tempo di alzare le mani in posizione di difesa.
Alcuni studiosi dell’Università Federico II di Napoli hanno esaminato gli scheletri ripuliti dalla cenere, rilevando qualsiasi tipo di frattura, comprese le lesioni dello smalto dei denti, e l’annerimento di alcune parti ossee. E proprio dalla misurazione di questi parametri sono riusciti a stabilire che la massa di cenere e di gas si sarebbe insinuata nei locali ad una temperatura superiore ai 500 gradi, provocando l’istantanea vaporizzazione dei muscoli e degli organi interni delle 80 vittime. Dunque, mentre molti abitanti morirono per asfissia, rendendosi conto di quello che stava accadendo, appare certo che le vittime recentemente scoperte passarono dalla vita alla morte in meno di una frazione di secondo.
Le posizioni in cui sono state ritrovate le vittime rivelano, come una tragica istantanea fotografica, quello che stavano facendo un momento prima della tragedia. Perché il genitore, il bambino, l’anziano, la donna, la terra, siamo noi. Impariamo a volerci bene.

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