Soia per il diabete

Le donne anziane affette da diabete di tipo 2 adesso hanno un nuovo modo per tenere a bada i livelli di colesterolo e di insulina nel sangue: i risultati di una nuova ricerca infatti evidenziano che l’assunzione regolare e quotidiana di soia può ridurre i rischi di malattie cardiovascolari nelle donne dopo la menopausa.

Questa scoperta può avere delle ripercussioni molto importanti in quanto le donne in età non più fertile con diabete di tipo 2 hanno il quadruplo di probabilità di sviluppare problemi all’apparato cardiocircolatorio rispetto alle loro coetanee sane. Per studiare l’effetto delle proteine della soia sui livelli ematici di glucosio, insulina e altri marker di patologie cardiache, i ricercatori hanno sottoposto 32 donne in postmenopausa con diabete di tipo 2 alla somministrazione di pillole a base di soia per 12 settimane. La dose di isoflavone (il componente antiossidante presente nella soia) contenuta nelle pillole era maggiore della quantità normalmente assunta con la dieta dalle popolazioni asiatiche, per le quali la soia è uno dei componenti base dell’alimentazione quotidiana. Allo scadere delle 12 settimane di sperimentazione i ricercatori hanno svolto una serie di analisi sulle partecipanti: i risultati hanno evidenziato una riduzione notevole dei valori totali di colesterolo e dell’ LDL, il cosiddetto colesterolo “cattivo”. D’altro canto, non si sono rilevate alterazioni del peso corporeo,della pressione sanguigna, delle HDL (colesterolo “buono”) e dei trigliceridi. La soia non sembra influenzare neanche i livelli di ormoni come gli estrogeni e il testosterone. In conclusione, anche se sono necessarie ulteriori sperimentazioni, pare che la soia sia davvero un’arma efficace e senza rischi collaterali per la lotta contro le malattie cardiovascolari nei soggetti diabetici.

Essere malati (immaginari) conviene?
Le persone che fingono o esagerano i sintomi di una malattia probabilmente si comportano così per ricevere maggiore considerazione e attenzione da parte di chi sta loro vicino. Una nuova ricerca, condotta presso l’Alabama University, ha preso in esame i cosiddetti “malati immaginari” per ricercare le cause che conducono a questo particolare comportamento. Sembra infatti che ci siano dei vantaggi sociali e psicologici nell’essere malati, oltre ai benefici più ovvi come ad esempio ricevere regali ed essere autorizzati a non recarsi sul luogo di studio o di lavoro. Grazie a particolari ricerche svolte utilizzando un gruppo di studenti come campione, i ricercatori hanno dimostrato che chi è affetto da gravi patologie e sfoggia conoscenze mediche paricolareggiate e precise sul proprio caso, riceve maggiori attenzioni, rispetto e ammirazione di chi invece dimostra di essere completamente disinteressato o all’oscuro della propria patologia clinica. Tutti i pazienti esaminati avevano lo stesso grado di istruzione e lo stesso stato socio-economico, per cui risulta evidente che l’unico metro di giudizio era la consapevolezza della gravità del loro stato di salute. In conclusione, sembra che la malattia abbia il merito di aumentare l’autostima del paziente e il rispetto di chi si relaziona con lui. Questi risultati sono importanti perché possono aiutare a capire i motivi che spingono una persona a fingere di soffrire di malattie gravi e croniche: infatti chi si sente non abbastanza apprezzato o si vuole in qualche modo distinguere dagli altri, spesso usa questo metodo per far sì che le persone intorno a lui lo considerino unico e importante.

La pancia fa male… al cuore!
In tutto il mondo l’obesità è considerata un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari, ma adesso un nuovo studio tende a smentire questa tesi affermando che la vera variabile di rischio dipende da dove ognuno di noi tende ad accumulare il grasso corporeo, e non dalla quantità complessiva di grasso. Infatti gli uomini con il classico ventre “a bevitore di birra” sembrano avere maggiore probabilità di soffrire di ipertensione rispetto a chi presenta ingrossate altre parti del corpo. In pratica l’aumento della pressione sanguigna è correlato con i depositi di grasso addominali piuttosto che con l’indice di massa corporea (BMI) e con la resistenza all’insulina, la condizione in cui una persona perde la capacità di rispondere a questo ormone che è fondamentale per regolare i livelli di glucosio nel sangue. L’indice di massa corporea è la misura del peso di una persona in relazione alla sua altezza e serve per valutare la condizione di obesità. Queste conclusioni sono state tratte dai ricercatori dopo attenti studi sui vari parametri di un gruppo di uomini di età compresa tra i 25 e i 75 anni che non hanno mai fatto uso di farmaci per abbassare la pressione. Dopo una notte di digiuno, i soggetti che si sono sottoposti allo studio hanno subito vari esami clinici per controllare la quantità di glucosio nel sangue, i livelli di insulina, il BMI e i valori pressori. Inoltre è stata loro misurata la circonferenza addominale , che viene considerata un marker della cosiddetta “obesità centrale”. Si è così potuto osservare che la pressione aumenta in relazione al BMI, all’età, ma soprattutto in base alla circonferenza dell’addome. Negli uomini di mezza età una distribuzione centrale di grasso corporeo è dunque un indice di rischio per le malattie cardiovascolari ed è strettamente correlato con alti livelli di LDL, quantità elevate di glucosio nel sangue e diminuzione di HDL che, come sappiamo, rappresenta il colesterolo buono che serve a ripulire le arterie…

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